di Maurizio Simionato
Certo, comoda non lo è. Forse quelle di serie A, con i cuscini imbottiti, gli schienali avvolgenti.
Ma le nostre, quelle di tutte le decine di migliaia di atleti che in Serie A non ci giocano, spesso sono di duro legno, o di freddo metallo. Che poi, in realtà, quello sarebbe il meno, perché la cosa che più ci dà fastidio è il doversi accomodare lì anziché in campo. Inutile girarci intorno con tanti bei discorsi: il “gruppo”, la “squadra”, “siamo tutti importanti”, “tutti titolari”, “non ci sono riserve”…
Quando il Mister legge i nomi o i numeri di maglia di chi inizierà la gara e non pronuncia il nostro, quella smorfia che facciamo dentro noi stessi, ma che non possiamo fare anche sul viso, si porta dietro quell’immagine che noi col c**o quadrato, anzi a strisce, conosciamo fin troppo bene: delle assi orizzontali che si appoggiano su quattro gambe di ferro, e sulle quali passeremo forse un’ora, o due. Oppure, nel migliore dei casi, potrà capitarci di abbandonarle per un tempo, un set. Sempre lei, sempre il nostro incubo, anzi ormai la nostra compagna inseparabile: Miss Panchina.
“Eh già, come al solito ha preferito lui”; “e pensare che nell’ultimo allenamento mi ha fatto i complimenti, mi ha incitato…”; “non ne ho saltato neanche uno negli ultimi venti giorni, lei invece è stata a casa malata per una settimana, ma in campo chi ci va? Lei, naturalmente…”; “nell’ultima partita non ha mai toccato palla, vagava per il campo, ma oggi il posto è ancora suo…”; “cosa avrà mai più di me? Tutti dicono che siamo allo stesso livello, che abbiamo le stesse caratteristiche, ma la storia è sempre la stessa: lei dentro io fuori”.
Quante volte noi eterni comprimari abbiamo fatto questi pensieri, mentre mestamente ce ne siamo andati verso l’ennesima, deludente, panchina? Ormai c’è addirittura chi terminato il riscaldamento, si rimette automaticamente la giacca della tuta, senza neanche attendere la lettura della formazione, perché sa già che gli servirà per non raffreddarsi troppo; così come sa già che anche questa volta la sua bella maglietta col numero, quella ufficiale “da gara”, resterà pulita e sarà pronta per la prossima occasione.
Sempre che però ci sia una “prossima occasione”: perché “stavolta me ne frego, se vengo convocata vado solo se non ho proprio nulla di meglio da fare quel pomeriggio, quella sera: altrimenti mi invento una scusa e dico che non posso, che ho già un impegno. Chi me lo fa fare di passare altro tempo a vedere le mie compagne che giocano, e io lì a chiacchierare con le altre quattro sfigate come me, che poi siam sempre le stesse. E ci dice pure di incitare le compagne in campo… Sai che voglia…”.
“Stavolta mi porto anche il cellulare, così almeno passo il tempo con qualche giochino… E chissenefrega se il coach lo vieta, tanto non mi vede, visto che è impegnato a guardare chi è in campo. Il tifo lo faccia lui, visto che comunque non mi considera mai”. “E pensare che ci fa pure andare a scaldarci: corsette, saltelli, stretching… E sa benissimo che non entreremo mai, a meno che uno non si faccia male. Io non lo ascolto neanche più: me ne sto seduto e penso ai cavoli miei, tanto non cambia nulla, è solo scena per far finta di coinvolgerci, per farci stare sul pezzo: le prime volte ci cascavo, ci credevo: ora non mi frega più. Si arrangi, se le faccia lui le corsette”.
E così noi dal “c**o a strisce” tiriamo giù la saracinesca, alziamo la barriera: dietro ci stiamo noi “panchinari scarsi”, davanti quelli “titolari bravi”, quelli da mettere in mostra al pubblico (anche se poi sono in quattro gatti a vedere la gara), quelli che “ci possono far vincere la partita”, quelli che un po’ se la tirano pure, che anche se sbagliano non fa nulla tanto restano dentro ugualmente, mentre se per caso in campo ci siamo noi al primo errore sappiamo già che usciremo”.
E che nervoso poi pure quella stupida passerella finale, in cui ci battiamo tutti il cinque con l’altra squadra e pure con l’arbitro magari: oltre al danno, anche la beffa di dover far finta di aver partecipato. Sì certo, partecipazione da spettatori privilegiati, vicini al terreno di gioco, con posti in prima fila. Ma il campo, ciaone…. E se abbiamo vinto ci tocca pure anche la scivolata sulle ginocchia come nelle partite che vediamo in tv, tenendoci per mano, come bravi bambini felici e sorridenti. Sorriso fuori, rabbia, delusione e morale a terra dentro. Soddisfazioni zero.
L’anno prossimo cambio squadra. Anzi no, smetto proprio.